Logo per la stampa
 
 

Provincia Autonoma di Trento - Agenzia provinciale per la protezione dell'ambiente

 

Quando un materiale è sottoprodotto e quando è rifiuto

Un commento dell’Agenzia provinciale per la protezione dell’ambiente a una sentenza della Corte di Cassazione

Con la sentenza 16 gennaio 2020, n. 1583, la terza sezione della Cassazione fa il punto sul valore della qualificazione dei residui di produzione effettuata ab origine dal produttore degli stessi e ribadisce alcuni principi in materia di onere della prova sui sottoprodotti.

Il caso oggetto di trattazione della Suprema Corte trae origine dal rinvenimento da parte del personale dell’Agenzia regionale per la protezione dell’ambiente del Piemonte presso il piazzale di una società di un’ingente quantità di materiale di varia natura, tra cui sfridi di plastica, di cui il detentore non era stato in grado di offrire alcuna documentazione idonea a comprovare la natura del materiale.

Il Tribunale condannava l’amministratore della società per il reato di gestione rifiuti speciali non pericolosi in assenza dell’autorizzazione prescritta dalla legge, fattispecie prevista e punita dall’art. 256, comma 1, lettera a), del D.Lgs. 152/2006.

Avverso la pronuncia del giudice di prime cure, il condannato ricorreva direttamente in Cassazione sostenendo – con due distinti motivi, ma sostanzialmente riconducibili ad un unico motivo di doglianza – che il Tribunale avesse errato nell’aver qualificato i materiali rinvenuti come rifiuti, avendo, a suo dire, gli stessi la natura di sottoprodotti.

Dirimente la classificazione originaria del produttore del materiale

Nel ritenere infondati i motivi di ricorso, il Collegio giudicante ha ribadito alcuni principi in materia di sottoprodotti, in particolare sul valore dell’originaria qualificazione del produttore e sulla spettanza dell’onere della prova.

Al di là della sussistenza o meno delle condizioni previste dall’art. 184 bis del D.Lgs. 152/2006, per la qualificazione di un materiale o di una sostanza come sottoprodotto o rifiuto è assolutamente dirimente la classificazione effettuata originariamente dal produttore. Pertanto, qualora costui avesse ab origine qualificato i residui di lavorazione come rifiuti, da ciò discenderebbe inequivocabilmente l’intenzione dello stesso di volersene disfare.

Nel caso portato all’attenzione della Corte di Cassazione è stato ritenuto decisivo il fatto che gli sfridi di  plastica “sono stati classificati come scarto di lavorazione, come affermato dagli operanti e dal consulente della difesa; da ciò il Tribunale ha logicamente dedotto che gli sfridi non possono che reputarsi rifiuti, ovvero materiali (…) dei quali il produttore intende disfarsi”.

Pertanto, la Suprema Corte ha ritenuto, sotto questo primo profilo, immune da censure la pronuncia del Tribunale, sostenendo che il giudice di primo grado abbia fatto corretta applicazione del principio secondo cui “in tema di gestione dei rifiuti, ove i residui della produzione industriale siano ab origine classificati da chi li produce come rifiuti, gli stessi devono ritenersi sottratti alla normativa derogatoria prevista per i sottoprodotti, in quanto la classificazione operata dal produttore esprime quella volontà di disfarsi degli stessi idonea a qualificarli come "rifiuti" in base all'art. 183, comma primo, lett. a), del citato D.Lgs.”.

L’onere per il produttore di provare la natura di sottoprodotto

Dopo aver confermato la natura dirimente della qualificazione operata dal produttore, il Collegio di Cassazione ha ribadito altresì alcuni principi in materia di onere della prova in merito alla sussistenza delle quattro condizioni previste dall’art. 184 bis del D.Lgs. 152/2006, al fine di poter classificare una sostanza come sottoprodotto, anziché rifiuto.

In particolare, la disciplina dei sottoprodotti ha natura eccezionale-speciale rispetto alla generale disciplina dei rifiuti. In altri termini, i residui di produzione sono generalmente rifiuti e assumono la qualifica di sottoprodotti, fuoriuscendo dalla disciplina della parte quarta del D.Lgs. 152/2006, solo laddove sussistano tutte e quattro le condizioni previste dal suddetto art. 184 bis. Pertanto, ricade sullo stesso produttore – e non può che essere così, trattandosi in una sostanziale causa di esclusione dell’illiceità penale – l’onere di dimostrare la ricorrenza di tutti i presupposti per far sì che un residuo di produzione possa rientrare nella deroga e fuoriuscire dall’ordinaria disciplina dei rifiuti.

Per la Corte anche sotto quest’ultimo profilo l’accertamento condotto dal Tribunale è esente da censure, “non essendo stata fornita la prova in ordine al riutilizzo integrale dei materiali” in questione.

In conclusione

Concludendo, la sentenza qui in commento ha fatto mera applicazione di quanto era già assodato in materia di sottoprodotti. Ancorché si tratti di una pronuncia non innovativa, è opportuno, comunque, ribadire l’importanza dei due principi espressi dal Collegio giudicante, ossia:

  • il fatto che, a prescindere dalla sussistenza o meno in astratto delle quattro condizioni previste dall’art. 184 bis del D.Lgs. 152/2006, è sempre dirimente la classificazione effettuata dal produttore. In particolare, la natura di rifiuto di una sostanza può, tra l’altro, essere desunta anche da comportamenti concludenti del produttore-detentore da cui emerga la volontà di volersene disfare;
  • il ribaltamento dell’onere della prova, nel senso che la dimostrazione della sussistenza delle quattro condizioni spetta sempre e solo al produttore, essendo l’istituto del sottoprodotto di cui all’art. 184 bis derogatorio rispetto all’ordinaria disciplina dei rifiuti. Peraltro, trattandosi di un istituto di carattere derogatorio-eccezionale, dev’essere data delle suddette quattro condizioni un’interpretazione restrittiva.

LT

 
Per ulteriori approfondimenti